Castellucci, la medaglia insanguinata

Gazzetta di Parma del 7/02/2007

di Carlo Bocchialini

Su quella lapide, all'ingresso del rifugio "Mariotti" al Lago Santo, è caduto l'occhio più o meno distratto di tutti i parmigiani. Inciso nel marmo, l'eroismo di nove uomini che nel marzo 1944 tennero testa per oltre venti ore a più di cento soldati nazifascisti e, alla fine, li costrinsero a ritirarsi. La "battaglia del Lago Santo" in breve tempo diventerà un episodio leggendario della Resistenza, che infonderà enorme fiducia negli esiti finali della lotta di Liberazione. "Il grido di vittoria echeggiò per le convalli e insorse la nuova Italia". Dante Castellucci "Facio" comandava quel piccolo gruppo, "fu lui a darci il coraggio, a salvarci", ricorda ancora oggi Pietro Gnecchi di Bedonia, "era uno che sapeva guidare e sapeva quello che faceva". Ma "Facio" sarebbe morto dopo soli quattro mesi, fucilato dai suoi stessi compagni. Diventerà una delle vittime di quelle "zone d'ombra, eccessi e aberrazioni" della Resistenza che, più di sessant’anni dopo, un Presidente della Repubblica di militanza comunista avrebbe pubblicamente riconosciuto nel suo discorso d'insediamento e una saggistica, da alcuni definita sprezzantemente revisionistica, sta riportando alla luce. Carlo Spartaco Capogreco racconta ora questa vicenda scomoda, coperta per decenni di oblio e menzogne, ne " Il piombo e l'argento- La vera storia del partigiano Facio" (Donzelli editore). Classe 1920, originario di Sant'Agata d'Esaro in Calabria, Dante era vissuto in Francia fino al 1939. Rientrato in Italia viene chiamato alle armi e inviato per un breve periodo sul fronte francese dove si trova nella straziante situazione di combattere contro la sua seconda patria. Durante una licenza conosce Otello Sarzi, che appartiene ad una famiglia di artisti girovaghi, confinato a Sant'agata per le sue posizioni antifasciste. Ripartito per il fronte russo riuscirà a rientrare dopo alcuni mesi per una ferita al timpano durante una battaglia. Dante è un artista, suona e scrive, e durante la convalescenza si unisce con entusiasmo alla compagnia teatrale dei Sarzi girovagando per l'Emilia. E' nella primavera del 1943, con la frequentazione assidua di questa famiglia e di quella dei Cervi, che matura quella consapevolezza antifascista che, dopo il 25 luglio, lo farà disertare per unirsi a loro nella lotta. Ma l'intraprendenza dei sette fratelli non è ben vista dal gruppo dirigente comunista reggiano, che ritiene l'azione armata "prematura e temeraria" e inizia un'opera di discredito contro la "banda". A novembre Dante e i Cervi vengono arrestati : lui, dichiarandosi francese grazie alla conoscenza della lingua, viene trasferito nella nostra Cittadella dalla quale riuscirà miracolosamente a fuggire, mentre gli altri verranno fucilati il 28 dicembre come rappresaglia per l'omicidio (oscuro e immotivato) del segretario comunale di Bagnolo in Piano. Senza i Cervi sulla scena Castellucci doveva essere messo "in quarantena e tenuto sotto controllo". Screditato come agente provocatore al servizio dei tedeschi e probabile responsabile della cattura dei Cervi, Dante viene mandato "in prova" in montagna al distaccamento "Picelli" dove però si fa apprezzare fin dal suo arrivo e in poco tempo diventa il vice del comandante, Fermo Ognibene. Il "Picelli" opera attivamente sul nostro Appennino, con azioni di disturbo, sabotaggi sulla Cisa e sulla linea ferroviaria Parma - La Spezia. si copre di gloria e sa conquistarsi la fiducia delle popolazioni locali. "Alberto" ( Fermo Ognibene) e "Facio" hanno un'intesa perfetta, sono "spiriti liberi dal carattere fiero e tenace", comandano con l'esempio e instaurano nel battaglione una sorta di "socialismo umanitario" con piena condivisione di beni e rischi( "un'unica sigaretta passa di bocca in bocca e arriva solo alla fine al comandante"). Ognibene però viene ucciso in un'imboscata e Castellucci deve prendere il comando del battaglione. Un' unità divenuta scomoda, non sempre ben vista dalle dirigenze del partito comunista; oggetto di more per i suoi successi da un lato e di timori per la sua supposta indipendenza dall'altro. Ma Dante è uomo d'azione poco incline ai giochi politici nei quali invece primeggia Antonio Cabrelli, figura ambigua, che nonostante i sospetti di essere una spia dell'Ovra, era riuscito a diventare commissario politico del "Picelli". "Facio" continua instancabile la lotta senza percepire che, in certi ambienti, è diventato ingombrante. Il pretesto per toglierlo di mezzo arriva a metà di luglio, quando alcuni reparti partigiani si contendono i materiali degli aviolanci alleati. Viene accusato in modo del tutto pretestuoso e processato senza alcuna garanzia difensiva. Emessa la sentenza, i partigiani che lo hanno in custodia gli offrono la fuga, ma lui preferisce affrontare con dignità il suo destino. Non ha ancora ventiquattro anni. Le responsabilità di Cabrelli nella sua cattura e successiva condanna risulteranno determinanti. I vertici del partito e gli uomini della Resistenza non credettero alle colpe di "Facio, ma, salvo isolate eccezioni, non fecero nulla per riabilitare il suo nome. Laura Seghettini, ex partigiana e sua compagna di vita, avrebbe cercato in ogni modo negli anni del dopoguerra di rendergli giustizia, scontrandosi con muri di gomma e aperte minacce. Il 19 maggio 1963 fu conferita a Dante Castellucci una medaglia d'argento al valor militare, ma, nella motivazione, la sua morte era avvenuta per mano del nemico. Un falso in atto pubblico. Capogreco ripercorre la vicenda in un libro che non mancherà di suscitare polemiche, ma che ha dalla sua il rigore storico e l'equidistanza tra le ombre e le luci della Resistenza. Restituire l’onore dovuto a "Facio" è un atto di giustizia che non toglie alcun merito alla lotta di Liberazione, una ferita non ancora chiusa, da comprendere- per usare le parole di Norberto Bobbio - "nella sua grandezza e nella sua miseria, nelle sue verità e nei suoi errori".

 

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