«Facio», il partigiano fucilato dai compagni
Il Giornale del 09/02/2007
di Domizia Carafoli
Dante Castellucci, il partigiano «Facio», giovane e leggendario comandante
del distaccamento «Guido Picelli» operante in Lunigiana, venne fucilato
all’alba del 22 luglio 1944 nei boschi sopra Adelano, nel Pontremolese. Alla
sua memoria è stata concessa nel ’63 una medaglia d’argento al valor
militare. Ma il partigiano «Facio» non cadde sotto il piombo tedesco o
repubblichino in uno dei tanti rastrellamenti che imperversarono su quei monti
tormentati.
È ben noto che la Resistenza non può essere sottoposta a critica, pena
l’infamante accusa di «revisionismo», accusa che colpisce anche storici di
provata fede «resistenziale» e di altrettanto provata onestà (vedasi la nota
censura nei confronti del libro di Alberto Cavaglion, La resistenza spiegata a
mia figlia, rifiutato da Einaudi e poi pubblicato da L’Ancora del
Mediterraneo). È altrettanto noto che dai primi mesi del ’44 in poi la
leadership del movimento partigiano fu saldamente in mano alla dirigenza
comunista, ben decisa a proseguire in una propria ottica della guerra,
eliminando senza pietà i compagni di lotta che ne intralciavano la strategia.
Bastano, a confermare l’egemonia comunista e la ferocia con cui essa venne
mantenuta, episodi come la fine del capitano Ugo Ricci, ucciso in un agguato dai
contorni oscuri il 3 ottobre ’44 a Lenno, sul Lago di Como, e la cui tragedia
è stata rievocata da Luciano Garibaldi in I giusti del 25 aprile (Ares). Nessun
dubbio invece sulla volontà di eliminare i cinque partigiani non comunisti
della «missione Strasserra», massacrati a Portula, nell’alta Valsèssera, il
26 novembre ’44 per ordine del capo comunista Francesco Moranino, in arte «Gemisto».
E nessun dubbio sulla volontà criminosa che presiedette all’eliminazione di
due delle mogli degli uccisi (vedasi per altri particolari Pci. La storia
dimenticata, di Sergio Bertelli e Francesco Bigazzi, Mondadori).
La vera storia del partigiano «Facio» è rimasta nascosta sotto un cumulo di
menzogne ufficiali, anche se la verità è stata sempre ben nota agli uomini che
combatterono con lui come alla sua compagna Laura Seghettini, testimone oculare
della tragedia di Dante Castellucci. Documenti e testimonianze sono stati anche
pubblicati ma sono rimasti confinati nella memoria locale, debole cosa nei
confronti della roboante motivazione della medaglia al valore: «Valoroso
organizzatore della lotta partigiana, incurante di ogni pericolo, partecipava da
prode a numerose azioni cruente. Scoperto dal nemico, si difendeva strenuamente:
sopraffatto e avendo rifiutato di arrendersi, veniva ucciso sul posto».
Sulla tragica - ma anche romantica - figura di Dante Castellucci torna ora, con
un preciso esame delle fonti storiografiche e l’ascolto degli ultimi testimoni
diretti dei fatti, Carlo Spartaco Capogreco nel saggio Il piombo e l’argento
(Donzelli, pagg. 240, euro 24,50, da oggi nelle librerie). Affascinante figura
di un giovane calabrese (era nato a Sant’Agata d’Esaro, in provincia di
Cosenza, nel ’20), emigrato bambino in Francia con i genitori, colto e
preparato anche se autodidatta, autore di poesie e commedie. Rientrato in
patria, Dante si legò d’amicizia con un altro fiabesco personaggio, Otello
Sarzi, appartenente a un’antica famiglia veronese di burattinai ambulanti che
si trovava in Calabria al confino di polizia per le sue idee antifasciste. Fu
lui a trascinare Dante in Emilia e a fargli conoscere la famiglia di Alcide
Cervi (il padre dei fratelli Cervi). Divenuto il suo braccio destro, fu
catturato in uno scontro con i militi fascisti il 25 novembre ’43, riuscì a
fuggire, raggiunse la Lunigiana e, dopo la morte in combattimento di Fermo
Ognibene, assunse la direzione del distaccamento «Picelli». Il coraggio di «Facio»
si trasformò in leggenda dopo la cosiddetta «battaglia del Lago Santo», una
bellissima e isolata località dell’Appennino parmense dove «Facio» e uno
sparuto gruppo di partigiani respinsero l’attacco di 80 militi della Gnr e di
30 militari tedeschi, suscitando persino l’ammirazione del nemico.
È forse iscritta nella sua tendenza all’autonomia e nella sua visione
politica inclinante al «socialismo umanitario», la tragedia di «Facio»,
inviso al commissario politico del «Picelli», il partigiano «Salvatore», al
secolo Antonio Cabrelli, un militante comunista rifugiatosi a Mosca durante il
fascismo dove aveva frequentato la scuola di partito e poi inquadrato, durante
la guerra di Spagna, nelle Brigate internazionali di stretta osservanza
moscovita, responsabili della morte di tanti anarchici spagnoli. Per eliminare
un partigiano «di non sicura fede» bisogna fabbricare delle prove. E Cabrelli
le trova in una supposta (e sempre smentita) appropriazione da parte di «Facio»
del materiale e del denaro proveniente da aviolanci alleati.
Come scrisse Maurizio Bardi sul mensile Lunigiana Sera nel 1999, «il 20 luglio
ad Adelano si riuniscono i capi della divisione ligure appena costituita:
Salvatore riesce a convincerli a nominare un tribunale per processare Facio.
Sono in diversi a capire che Salvatore è poco più di un esecutore, anche se
molto interessato, di decisioni prese altrove...». Sarà un «tribunale di
guerra» presieduto da Antonio Cabrelli e formato da Luciano Scotti, Renato
Jacopini, Primo Battistini, Giovanni Albertini e un certo «Alda» (forse Nello
Scotti, padre di Luciano) a decidere la condanna a morte di Dante Castellucci,
fucilato all’alba del 22 luglio da un plotone composto da partigiani del
battaglione «Signanini» agli ordini di un fantomatico «Comando unico»
spezzino. Ma secondo Laura Seghettini la condanna fu pronunciata in nome del
Partito comunista. Poche ore dopo, Antonio Cabrelli visitò i distaccamenti del
«Picelli» comunicando agli sbalorditi partigiani che il loro comandante era
stato processato e fucilato perché si era appropriato di mezzo milione di lire
sganciato dagli aerei alleati.
Così morì il partigiano «Facio», a 24 anni. Il resto è la storia di una
menzogna lunga sessant’anni, costruita dal cinismo della dirigenza comunista,
complice l’omertà di molti ex compagni di Castellucci che conoscevano la
verità. Per questa verità Laura Seghettini si è battuta tutta la vita.