L’INDICE DEI LIBRI DEL MESE

Spirito troppo libero

L’INDICE dei libri del mese, maggio 2007


di Paolo Pezzino

L’uccisione del comandante partigiano Dante Castellucci a opera di altri comandanti della sua stessa parte politica (comunista)
e militare (garibaldina) era nota a livello locale, ricostruita in vari scritti del principale storico della resistenza nella zona, Giulivo Ricci. Pochi mesi fa, poi, era stata riproposta nelle memorie della sua compagna, eccezionale figura di donna, combattente partigiana, e militante comunista, Laura Seghettini, recentemente pubblicate da Carocci (Al vento del Nord. Una donna nella lotta di Liberazione, a cura di Caterina Rapetti, 2006). A essa Spartaco Capogreco dedica ora un intero volume, frutto di lunghe ricerche, che unisce rigore storiografico a passione civile, e ha il grande merito di contestualizzare l’episodio e fornirne un’interpretazione plausibile. Calabrese di origine, emigrato con la famiglia in Francia, che considerava la sua seconda terra, Dante Castellucci approdò alla lotta partigiana passando da un antifascismo esistenziale ad un impegno politico attivo dopo essere entrato in contatto con la famiglia Cervi, diventandone ben presto intimo. Militare di leva, disertò il 25 luglio 1943 e partecipò all’impegno dei Cervi nella precoce organizzazione della resistenza nel reggiano. Arrestato insieme ai sette fratelli, riuscì a fuggire dal carcere e fu avviato dai compagni di Parma sui monti, presso il distaccamento “Picelli”, la prima banda partigiana della provincia, diventandone ben presto vice comandante e successivamente comandante. Il “Picelli” operava in Lunigiana, nell’alta valle del Verde, ma continuava ad avere rapporti con la struttura politica e militare parmense, ed era inquadrato nella XII Brigata Garibaldi Parma. Castellucci, che assumerà il nome di battaglia di “Facio”, per il suo carattere estroverso, il suo coraggio che non sconfinava mai nella temerarietà, la sua capacità di comando e di condivisione dei pericoli e dei disagi della vita partigiana, la sua attenzione alla sicurezza delle popolazioni – “quando andiamo in azione è nostra massima cura evitare qualsiasi abitato”, scriverà in un rapporto del maggio 1944 – diventò ben presto un comandante amato dai suoi uomini ed apprezzato dalla popolazione della zona in cui operava. I problemi cominciarono quando ad una prima fase di sostanziale autonomia delle bande ne subentrò una seconda nella quale si cercò di organizzare la resistenza in formazioni più ampie, coordinate militarmente e politicamente: ovunque questo passaggio ha provocato problemi e disagi con le formazioni che si voleva coordinare, e con comandanti abituati ad agire con grande libertà e spesso gelosi della loro autonomia. Anche il processo di unificazione delle formazioni operanti nell’area fra le valli del Taro, Vara e Magra, “finalizzato alla creazione del Comando unico partigiano facente riferimento al CLN spezzino e alla costituenda IV Zona operativa ligure”, trovò opposizioni. Facio era comunista, accettava senza problemi la presenza del commissario politico nella sua formazione, ma era collegato alla struttura militare-politica del parmense, ed il suo proposito di spostare la sua formazione – nella quale col tempo l’elemento locale, lunigiano e ligure, era venuto crescendo – per avvicinarla al comando della XII brigata Garibaldi Parma, fu osteggiato dai dirigenti spezzini: senza la Picelli, infatti, in Lunigiana la componente comunista del fronte resistenziale si sarebbe inesorabilmente indebolita, e la competizione con gli autonomi e gli azionisti per i posti di comando nel futuro comando unificato l’avrebbe vista probabilmente perdente. Egli cominciò ad essere descritto perciò come uno spirito “troppo” libero, intollerante della disciplina: accuse che ricordano quelle che, in un altro contesto geografico, furono rivolte ad un altro comunista non inquadrato (aveva fatto forte opposizione all’invio nella sua formazione del commissario politico), Otello Musolesi “Lupo”, comandante della Brigata “Stella Rossa” che operava a Monte Sole, anch’egli poco propenso a inserirsi nella struttura unificata delle bande del bolognese (ed infatti una leggenda, alimentata dalla sua stessa famiglia, ne fa risalire la morte non allo scontro con le SS di Reder nella prima giornata del massacro di Monte Sole, come effettivamente fu, ma a un’azione di alcuni suoi compagni legati alla struttura comunista bolognese). E’ in questo contesto che scatta il piano di sbarazzarsi del comandante partigiano carismatico, ma riluttante a rientrare nei progetti dei comunisti spezzini: e così Facio viene attirato, con un tranello, presso il comando di una formazione partigiana vicina, arrestato, sottoposto ad un ridicolo processo, con fantasiose accuse, e fucilato nel giro di poche ore. Tutti i protagonisti del tribunale di guerra facevano riferimento al partito comunista: uno di essi, Antonio Cabrelli, che si era introdotto nel maggio nella formazione “Picelli” ed ebbe un ruolo determinante nella vicenda, era stato emarginato, durante gli anni di confino, dai suoi compagni di partito perché sospettato di essere un agente dell’Ovra. Su questo specifico aspetto la ricerca di Capogreco, così come la convinzione di Laura Seghettini che i sospetti fossero fondati, non portano elementi di prova decisivi; ma, anche ammesso che effettivamente Cabrelli fosse un agente provocatore, ciò nulla toglierebbe alla piena responsabilità politica di una parte della struttura militare del partito comunista nell’esecuzione di Facio. Del tribunale di guerra che in poche ore lo processò e lo fece fucilare facevano infatti parte sei comunisti, tutti con ruoli di rilievo nella Resistenza armata. Due di loro, lo stesso Cabrelli e Luciano Scotti, saranno di lì a pochi giorni nominati rispettivamente commissario politico e capo di stato maggiore del neo costituito Comando unico spezzino. Commenta Capogreco: “l’adesione coatta del ‘Picelli’ […] alle forze garibaldine spezzine permetterà di riequilibrare i rapporti di forza con la Colonna Giustizia e Libertà, e consentirà ai comunisti di ottenere i posti di maggiore responsabilità nel Comando della Prima Divisione”. Peraltro sarebbe erroneo, a mio avviso, parlare di una congiura del “Partito comunista” contro Facio: il responsabile provinciale spezzino, Antonio Borgatti, criticherà duramente il comportamento dei propri compagni di partito, e così farà il sarzanese Paolino Ranieri – altra mitica figura di antifascista e partigiano – in un rapporto sul processo. Dopo la liberazione, nessuno di coloro che aveva processato ed ucciso “Facio” farà strada nel partito e nella vita politica, e tuttavia, nonostante la caparbia volontà di Laura Seghettini, Facio non venne mai ufficialmente “riabilitato” dal partito, né gli rese giustizia la magistratura, alla quale la sua compagna si era rivolta perché i suoi assassini venissero sottoposti a giudizio. Si preferì percorrere l’ipocrita strada della concessione (propugnata da chi? Su questo aspetto il libro non porta elementi conoscitivi) di una medaglia d’argento alla memoria, nel 1963, la cui motivazione giustamente Capogreco definisce un “capolavoro di ipocrisia”, dato che vi si afferma una (falsa) uccisione in combattimento: “scoperto dal nemico, si difendeva strenuamente; sopraffatto e avendo rifiutato di arrendersi, veniva ucciso sul posto. Esempio fulgido del più puro eroismo. Zona di Pontremoli, 22 luglio 1944”. La conflittualità infrapartigiana è certo un tema scottante, rispetto alla versione imbalsamata della Resistenza che si è voluto dare, soprattutto a partire dagli anni sessanta, ma la storiografia ha cominciato già da tempo ad occuparsene. Vorrei ricordare i saggi di Santo Peli, Il primo anno della Resistenza. Brescia 1943-1944 (Quaderni della Fondazione Micheletti, 1994) sull’uccisione nel settembre 1944 del capo partigiano russo Nicola Pankov, che si era rifiutato di unirsi ad una formazione garibaldina; di Mimmo Franzinelli, Un dramma partigiano. Il “caso Menici”(Quaderni della Fondazione Micheletti, 8, 1995) sul colonnello, partigiano della Valcamonica, consegnato dalle Fiamme verdi ai tedeschi, e da questi giustiziato, perché considerato un pericolo per l’egemonia cattolica sul movimento partigiano della zona; di Massimo Storchi, sull’uccisione di Mario Simonazzi, il partigiano cattolico Azor, vicecomandante della 76° brigata Sap, scomparso sulle colline dell’Appennino emiliano nel marzo del 1945, ucciso probabilmente (la vicenda è ancora di ambigua interpretazione) da elementi garibaldini in un regolamento di conti (Sangue al bosco del Lupo. Partigiani che uccidono partigiani. La storia di “Azor”, Aliberti, 2005). A questo filone di analisi si unisce ora il libro di Spartaco Capogreco, al quale bisogna riconoscere onestà intellettuale e competenza storiografica: e, per prevenire le solite lamentele di lesa maestà dei confronti della Resistenza, delle quali già sono cominciate ad apparire sulla stampa alcune manifestazioni, vorrei ricordare quanto scriveva Mario Isnenghi a conclusione della prefazione al citato saggio di Franzinelli: “davanti al pericolo di “strumentalizzazioni interessate” di ricerche ed opere come queste, “il ‘fronte’ politico e storiografico della resistenza si [può] difendere e tenere solo così: contrastando l’oblio, in tutte le sue forme, anche quelle apparentemente pietose e che ci vorrebbero complici”.

 

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