I silenzi della Resistenza, ma la verità è sempre rivoluzionaria Liberazione del 13/05/2007
di Stefano Tassinari La vecchia logica del "lavare i panni sporchi in famiglia", tanto cara a una certa sinistra di stretta osservanza stalinista, ha provocato molte vittime, prime fra tutte la verità storica e la possibilità di uscire dalla crisi del Novecento "a sinistra", riscrivendo - come indicava Fausto Bertinotti qualche anno fa - "la parola comunismo sulla base di un nuovo alfabeto". In questo senso, il terreno più scivoloso da solcare resta quello della Resistenza, innanzi tutto perché attraversato, specie nell'ultimo decennio, da revisionisti di ogni tipo e da artefici della liquidazione del più significativo evento politico (e aggiungerei "morale") avvenuto nell'Italia del secolo scorso. Il giusto bisogno di reagire ai tentativi di denigrare la Resistenza e di smantellarne il mito tende a provocare, però, una reazione pericolosa, basata sulla presunta necessità di stendere il classico velo di silenzio su episodi imbarazzanti (è un eufemismo) verificatisi durante la lotta di liberazione, il tutto per "evitare di offrire argomenti ai nemici della Resistenza". Personalmente, ho sempre ritenuto sbagliato e controproducente questo atteggiamento mentale, sia per quanto esposto in precedenza (non si può rifondare un pensiero forte e, nel contempo, pesantemente offuscato come il comunismo a partire dalla reticenza), sia perché, in fondo, l'ormai antico detto "la verità è sempre rivoluzionaria" è ancora valido. Uno dei più gravi tra quegli episodi è al centro dell'ottimo libro di Carlo Spartaco Capogreco Il piombo e l'argento. La vera storia del partigiano Facio , dedicato alla figura di Dante Castellucci (nome di battaglia "Facio"), protagonista della Resistenza tra l'alta valle del Taro e la Lunigiana, fucilato da alcuni suoi compagni per ragioni assurde e meschine. Attraverso una ricostruzione minuziosa dei fatti, intrecciata a elementi storici e biografici, l'autore affronta una delle storie più vergognose tra quelle ascrivibili alle lotte ideologiche e di potere interne al Pci di allora, conclusasi non solo in modo tragico, ma lasciandosi dietro una lunga scia di rimozioni e di menzogne interessate. Dante Castellucci, nato in Calabria nel 1920, emigrato in Francia all'età di due anni al seguito di un padre in pericolo per aver schiaffeggiato il sindaco del proprio paese, rientra a Sant'Agata d'Esaro, in territorio cosentino, nel febbraio del 1939. Alle spalle ha un'esperienza di vita completamente diversa da quella dei suoi compaesani, consumata in una realtà culturale ed economica molto più evoluta; ciò nonostante, nel giro di poco tempo, riesce ad inserirsi nel tessuto locale, costruendo anche alcuni rapporti d'amicizia che dureranno per il resto della sua breve vita. Il legame più importante, però, è quello che lo legherà a un giovane del nord, spedito al confino dal regime fascista proprio a Sant'Agata: si tratta di Otello Sarzi, attore e regista membro di una nota famiglia di teatranti lombardi (ma emiliani d'adozione), il quale, nella seconda metà del Novecento, diventerà il più famoso burattinaio italiano. Al momento del loro incontro, nel dicembre 1940, Dante è un soldato in convalescenza, destinato a finire prima ad Acqui Terme e poi sul fronte russo, da dove verrà rimpatriato dopo essere stato ferito. Otello - antifascista e comunista come la sorella maggiore Lucia e gli altri parenti stretti - dopo diciassette mesi di confino rientra in Emilia, dove la compagnia della sua famiglia si sposta soprattutto tra le province di Modena, Reggio e Parma, nelle cui piazze presenta diversi spettacoli "critici" e intesse rapporti, uno dei quali, decisivo, con la famiglia di Alcide Cervi. E sarà proprio presso il cenacolo politico dei Cervi che Castellucci, trasferitosi in Emilia come disertore nei giorni della caduta del fascismo, maturerà la scelta di aderire alla Resistenza, entrando a far parte della Brigata Garibaldi parmense, del cui battaglione "Guido Picelli" assumerà il comando, distinguendosi per carisma e capacità militari. Nelle pagine del libro, Capogreco racconta con dovizia di particolari i dodici mesi durante i quali "Facio", da capo partigiano, diventerà una sorta di mito per le popolazioni appenniniche residenti tra le province di Parma, Massa Carrara e La Spezia, fino alla tragica data del 22 luglio 1944, giorno in cui Castellucci, arrestato con un raggiro da alcuni comunisti spezzini, viene sbrigativamente fucilato con la ridicola accusa di essersi appropriato di una piastra da mortaio paracadutata dagli inglesi (dopo la fucilazione, di fronte alla rabbia di tanti compagni di "Facio", i "giudici" trasformeranno la piastra in cinquecentomila lire contenute in un bidone, aggiungendo al dramma un elemento grottesco). Alla base di questo atto criminale, rimasto avvolto nel mistero per parecchi decenni, ci fu un insieme di motivazioni, tutte ugualmente squallide: dall'invidia personale al tentativo di occupare il posto di "Facio", dalla necessità di punire un partigiano troppo "autonomo" al bisogno di ristabilire gerarchie militari e di partito considerate "stravolte" da chi, evidentemente, concepiva la militanza comunista come un modo per fare carriera. Nel dopoguerra, oltre ai tentativi di depistaggio e di rimozione di quell'evento, si registrerà anche la farsesca assegnazione a Dante Castellucci ("caduto eroicamente a Pontremoli") di una medaglia d'argento "alla memoria", appuntata sul petto dell'anziana madre nel maggio del 1963. Peccato che, come scrive con malinconico sarcasmo Capogreco, "Facio" non sia caduto eroicamente combattendo contro il nemico, ma sia stato assassinato dal fuoco amico, per poi - aggiungo io - essere ucciso una seconda volta dall'ipocrisia di chi, nemmeno diciannove anni dopo, ebbe il coraggio di dire quella verità che oggi, per fortuna, Capogreco ci svela nel più preciso e intellettualmente onesto dei modi.
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