Il partigiano Facio, calabrese ribelle
l'Unità del 12 Marzo 2007
di Agazio Loiero
Governatore della Regione Calabria
Carlo Spartaco Capogreco ha scritto per Donzelli un bellissimo libro, «Il
piombo e l’argento», che riporta alla luce una storia crudele, perché in
genere crudeli sono le storie che emergono dal deposito di memorie di una
guerra civile, come fu definita dallo storico Claudio Pavone quella tragica
stagione del nostro Paese che va dal 25 luglio del ’43 al 25 aprile del
’45. Registro ancora una volta una certa riluttanza di una parte ormai
minoritaria degli eredi del Pci a trattare un argomento sul piano
storiografico delicato. Mi riferisco ad ingiustizie, persecuzioni, processi
sommari che si consumarono in quei tragici mesi all’interno dello stesso
fronte di lotta partigiana.
Spesso di queste ingiustizie si macchiarono alcuni comunisti del tempo.
Ovviamente non intendo, né sarei in grado di entrare, in una difficile
disputa storiografica, sono però convinto che nessuna singola storia, per
quanto crudele e ingiusta, può offuscare il valore della lotta di liberazione
che contribuì in misura determinante ad aprire le porte della democrazia in
Italia. La lotta di liberazione è dunque da accettare comunque, come afferma
con saggezza Norberto Bobbio, «nella sua grandezza e nella sua miseria, nelle
sue verità e nei suoi errori». Perché dunque ne scrivo? Per un fatto
semplice. Trovo che nella biografia del “brigante” calabrese Dante
Castellucci, protagonista del libro, si nasconde, oltre alla metafora della
Resistenza offesa anche una metafora vicaria, più schiva, che fa riferimento
alla complessa antropologia calabrese, di cui Castellucci è figlio, e che
sembra andare in controtendenza rispetto alle notizie divulgate, specie negli
ultimi anni, dai media. Nella breve vita del partigiano Facio (il suo nome di
battaglia) si registrano infatti episodi positivi, talvolta eroici, che
connotano una condizione di vita e di gesti che rinviano al bozzolo delle sue
radici, ad una regione che, a sentire i media, non esisterebbe più. Errore
madornale. Quella Calabria esiste e resiste tenacemente, anche se è costretta
a convivere con la sua parte negativa. Quella che purtroppo fa più clamore.
Mi sembra utile ricordarlo in un tempo in cui tutte le malefatte del mondo
sembrano concentrarsi solo da noi.
La biografia di Dante Castellucci, è ormai nota ai lettori di questo
giornale. Cito solo alcuni passaggi utili al discorso che vado facendo. La
storia del giovane protagonista del libro è una storia di emigranti. La sua
famiglia è costretta ad espatriare (un verbo che rende meglio di emigrare il
senso di quelle partenze disperate) in Francia quando lui è solo un
ragazzino. Fin qui nulla di straordinario. Lungo l’arco del ventesimo secolo
il numero dei calabresi costretti a lasciare la propria regione è così alto
che gli storici fanno una fatica del diavolo a tenerne il conto. Quelle plebi
disperate partivano lasciandosi alle spalle un territorio povero ma
dolcissimo. Partivano senza mai guardarsi indietro seguendo un ammonimento
poco conosciuto di Pitagora, filosofo insigne e tra i primi emigranti che si
conoscano: «se devi lasciare la tua patria, salendo sulla nave, distogli lo
sguardo dai confini che ti hanno visto nascere». Consiglio estremamente
saggio cui molti meridionali, spesso analfabeti, senza avere consapevolezza di
una provenienza così illustre, si sono attenuti per un istinto di
sopravvivenza: temevano che il loro cuore non reggesse alla vista della
propria casa che scompariva a poco a poco all’orizzonte. Nella vita del
nostro brigante irrompe dunque un fenomeno quasi naturale, quello
dell’emigrazione, che per molti decenni ha colpito una famiglia su due in
Calabria.
Continuo a chiamarlo “brigante” perché è così che lo definiscono quelli
che, dopo un processo sommario, lo fucilano. E poi so bene che l’etichetta
di “brigante” veste a pennello il profilo di un calabrese ribelle.
Voglio infine ricordare due altri elementi che completano questa seconda
metafora: il legame profondo con la Patria d’adozione. Rientrato in Italia
nel ’39, Facio, un anno dopo, allo scoppio della guerra, viene arruolato e
spedito sul fronte francese. E qui si consuma un dramma psicologico di grandi
dimensioni. Il giovane eroe non se la sente di sparare contro il popolo che lo
ha accolto bambino e sfamato. I briganti, si sa, hanno il grilletto facile. In
certe occasioni particolari sembrano però ingessati. Chiede di essere
immediatamente trasferito in forza di un sentimento di gratitudine verso la
terra dell’accoglienza che ancora oggi, in giro per il mondo, riscontro in
tanti emigrati.
Secondo e ultimo elemento della metafora. Dante Castellucci è un irregolare
che, dopo l’ormai famosa battaglia del Lago Santo nel corso della quale,
dopo circa 20 ore di battaglia, al comando di soli nove uomini, mette in fuga
oltre cento tedeschi, diventa una leggenda. Un irregolare, che non a caso come
nome di battaglia sceglie “Facio”, un brigante calabrese che si era
strenuamente battuto contro i Borboni. Uno di quelli che in Calabria, non oggi
ma in anni lontani, per reagire ad un sopruso, vero o presunto, non esitavano
a darsi alla macchia per intraprendere una lotta senza quartiere contro
eserciti regolari. Dei Borboni prima e dei piemontesi dopo. Una lotta folle
dall’esito scontato, combattuta per dare sfogo a quel “fondo dionisiaco”
che, secondo qualche storico sembra, nel bene e nel male, imprigionare
l’anima calabrese.