Paolo Pezzino

Trascrizione della Relazione
pronunciata dal Prof. Paolo Pezzino
a Sarzana, il 16 marzo 2007,
per la presentazione, in prima nazionale, del volume.

 

Grazie, buona sera a tutti. Io sono molto contento che il Comune di Sarzana abbia deciso di presentare questo libro. Contento perché Sarzana rappresenta nella storia dell’antifascismo italiano una città importante, prima ancora dell’ascesa al potere del fascismo, tanto più dopo con la Resistenza… Sono contento anche perché il libro di Carlo Spartaco Capogreco è un libro di una persona che condivide i valori dell’antifascismo. Non ci sarebbe bisogno di dirlo perché il libro di storia va giudicato naturalmente in base al suo valore scientifico, alle fonti che utilizza e al modo nel quale queste fonti sono interpretate, e questo è un ottimo libro di storia, con una competenza di informazione e una grande capacità e limpidezza analitica. Però sento il bisogno di dirlo, perché noi ci troviamo oggi in presenza di tentativi volgari di rivisitare la nostra storia, di ridimensionare il peso che la Resistenza ha avuto nella formazione della coscienza democratica in questo paese. E vi potrebbe essere un rischio (che basta leggere il libro per non correre, ma siccome non tutti avranno letto il libro, ne voglio parlare) che questo libro venga omologato in qualche misura ad un certo filone culturale che negli ultimi anni ha venduto molto e ha avuto molto spazio nei media, gettando fango addosso alla Resistenza. Non è questo il caso. Questo libro analizza un episodio: l’uccisione del comandante partigiano Dante Castellucci “Facio” ad opera di altri comandanti della sua stessa parte politica (quella comunista) e militare (quella garibaldina) che era già nota a livello locale (vorrei ricordare i vari scritti di Giulivo Ricci), una vicenda che è stata sinteticamente riproposta anche in un saggio di Giovanni Contini dedicato alla memoria delle stragi avvenute in Toscana nel 1944 e pubblicato in un libro curato da Gianluca Fulvetti e Francesca Pelini… Più recentemente la figura di Facio e l’episodio della sua uccisione, è stata riproposta nelle memorie della sua compagna, una eccezionale figura di donna, di combattente partigiana, e militante comunista, Laura Seghettini (Al vento del Nord. Una donna nella lotta di Liberazione), pubblicate nell’estate scorsa. Però è indubbio che solo col libro di Carlo Spartaco Capogreco (un libro che è frutto di lunghe ricerche, di anni di ricerche, e che unisce rigore storiografico a passione civile) la vicenda viene contestualizzata e se ne fornisce un’interpretazione plausibile. Partiamo intanto da Dante Castellucci la figura che è protagonista del libro. Era una singolare e per alcuni versi eccezionale figura di antifascista e comunista. Calabrese di origine, emigrato con la famiglia in Francia, fin da bambino, tant’è che considerava la Francia il suo secondo paese approda alla lotta partigiana attraverso un percorso nel quale la sua istintiva esistenziale direi, opposizione al regime è appunto un classico esempio di quello che Guido Guazza definiva “antifascismo esistenziale”, più che un antifascismo che derivava da un’appartenenza a una famiglia politica fascista, viene incanalato nell’impegno politico attraverso l’incontro con un confinato politico, altra interessantissima figura Otello Sarzi che nell’agosto del 1940 era stato inviato al confino nel paese nativo di Dante, Sant’Agata d’Esaro, in Calabria. Attraverso Otello Sarzi, conosciuto durante una licenza di convalescenza, perché Castellucci era sotto le armi, Dante entra in contatto con la famiglia Cervi, diventandone ben presto intimo. Militare di leva, ha un’esperienza di guerra in Russia, viene poi rimpatriato per motivi di salute, diserta il 25 luglio 1943 (quindi non aspetta l’8 settembre, ma già il 25 luglio decide che è il momento di passare a una fase attiva di impegno), si riunisce alla famiglia Cervi approdando alla lotta partigiana e passando quindi da questa posizione che ho definito di antifascismo esistenziale a un impegno politico attivo nella precoce organizzazione della Resistenza nel Reggiano. È una fase primordiale della Resistenza (siamo appunto subito dopo il 25 luglio e poi ancor più dopo l’8 settembre) nella quale la Resistenza si organizza anche per tentativi locali, spesso non venne coordinata. Il libro dimostra come anche all’interno dei comunisti del Reggiano e del Parmense vi fossero differenti visioni della lotta resistenziale e come i fratelli Cervi che erano favorevoli ad una lotta immediata, probabilmente pensando anche a una possibilità di insurrezione popolare antifascista, si scontrano ad esempio con alti membri della Federazione comunista di Reggio Emilia i quali invece pensano che ci si debba attrezzare ad una lotta più di lunga durata e quindi che alcune primordiali esperienze, interventi fatti dai fratelli Cervi, possano essere addirittura pericolosi. Tant’è che i fratelli Cervi ad un certo punto trovano un appoggio ed un sostegno nel Parmense invece che a Reggio Emilia. Arrestato insieme ai sette fratelli, Facio riesce a fuggire, si finge soldato francese sbandato, approfittando della sua perfetta conoscenza della lingua, non viene quindi portato nella prigione di massima sicurezza, dove vengono rinchiusi i fratelli ma viene portato in un carcere sgangherato dal quale non gli è proprio difficile fuggire. E, nonostante alcuni sospetti di una sua collaborazione con le autorità fasciste, che erano stati messi in circolazione senza alcun fondamento, probabilmente proprio dal comitato militare clandestino reggiano ostile ai fratelli Cervi, viene creduto dai compagni parmensi come personaggio, invece, degno di fede e di fiducia ed inviato sui monti, presso il distaccamento “Picelli” che si era appena costituito. Il distaccamento “Picelli” operava in Lunigiana, nell’alta valle del Verde, comune di Pontremoli, ma continuava ad avere un rapporto con la struttura politica e militare parmense, dal quale Facio si considerava dipendente, tanto che viene inquadrato nella XII Brigata Garibaldi Parma. È una banda come tante, di quelle che si formano all’inizio, in questa fase primordiale in cui poi, molto spesso, nonostante gli inquadramenti in brigate e divisioni, quello che conta è il comandante, la località e il rapporto che si crea tra un gruppo di giovani tra un gruppo di giovani e le persone in quella località. È una Resistenza ancora molto localizzata, collegata, che non ha ancora trovato le forme di un coordinamento più ampio. È una banda che Spartaco Capogreco definisce improntata a un – cito qui dal libro – “ socialismo umanitario che non soltanto combatte militarmente il fascismo, ma propugna una condivisione comunistica dei beni e dei rischi, mettendo in essere l’effettiva eguaglianza tra tutti i suoi componenti ”. Ancora una volta mi rifaccio a Guido Guazza che definì le bande partigiane come “microcosmo di democrazia”. Non erano tutte così le bande partigiane, perché, ad esempio, le bande che avevano un’origine militare, avevano al loro interno una struttura gerarchica che riproduceva all’interno della banda quel rispetto per la gerarchia che è tipico dei soldati e degli eserciti. Ma, molto spesso, viceversa, in bande con una caratterizzazione politica (e caratterizzazione politica voleva dire una generica, spesso, appartenenza ad una famiglia politica ad un’ideologia: ci si diceva comunisti non perchè avessero strettissimi rapporti con una cultura del partito che passava a tenere i collegamenti con tutte queste realtà, ma perché si condivideva, appunto un’idea, molto spesso, quest’idea che Spartaco Capogreco definisce, appunto, di “condivisione comunistica dei beni e dei rischi”). In queste bande il fare la guerra il modo nuovo e l’avere rapporti tra comando e uomini diverso: i comandanti erano eletti dagli uomini della banda, dovevano avere la fiducia degli uomini della banda, se no la banda non viveva, non operava. La banda è quindi è un microcosmo di democrazia. Castellucci, che assumerà il nome di battaglia di “Facio”, per il suo carattere estroverso, per un coraggio che non sconfinava mai nella temerarietà, per una capacità di comando notevolissima, di condivisione dei pericoli e dei disagi della vita di montagna (che erano tanti: sia i pericoli che i disagi), per una attenzione fortissima alla sicurezza della popolazione, in un rapporto del maggio 1944 (diretto, credo, proprio alla struttura del partito a Parma) dirà: “Quando andiamo in azione è nostra massima cura evitare qualsiasi abitato, per il pericolo di rappresaglia da parte tedesca”. Diventa ben presto vice comandante e poi comandante del distaccamento “Picelli”. Un comandante amato dai suoi uomini ed apprezzato dalla popolazione nella zona in cui opera, e ben presto diventa autore di imprese poi diventate mitiche, come la famosa battaglia del Lago Santo, di cui credo proprio in questi giorni si celebri l’anniversario. I problemi cominciano quando ad una prima fase di sostanziale autonomia delle bande, in cui le bande, appunto, nascono abbastanza spontaneamente (certo, ripeto, hanno riferimenti politici e organizzativi, ma fondamentalmente sono autonome, decidono autonomamente che tipo di azioni compiere), si passa a una seconda fase nella quale si cerca di organizzare la resistenza armata in formazioni più ampie, coordinate militarmente e politicamente. E sono entrambi due tipi di coordinamento problematici. Il coordinamento militare è problematico perché molto spesso i capi partigiani sono gelosissimi della propria autonomia e rifuggono da un superiore che, oltretutto, spesso non conoscono, che comunque non ha quel rapporto, appunto, diretto che lega per esempio il capo partigiano ai propri uomini. I superiori delle brigate delle divisioni che si creano sono molto spesso il frutto di un rapporto, di un compromesso, di una discussione tra le varie componenti politiche che formano la resistenza di una zona. E, appunto, il coordinamento politico mette insieme non solo formazioni garibaldine ma anche azioniste di Giustizia e libertà, che sono le formazioni più organizzate dopo quelle comuniste, ma anche formazioni autonome spesso molto ben organizzate. Quindi è una fase difficile quella del coordinamento. E ovunque questo passaggio da una situazione di bande con una forte distinzione locale ha una situazione di formazioni più ampie che cercano realmente di dare vita ad un vero e proprio esercito popolare organizzato in divisioni e brigate crea problemi. Crea perché i comandanti, appunto, sono spesso gelosi della loro autonomia; crea problemi perché il coordinamento molto spesso avviene solo sulla carta e non è un coordinamento reale, perché non vi sono le possibilità di coordinare realmente formazioni che vivono su un territorio piuttosto esteso, alla macchia e in una situazione nella quale i collegamenti sono ovviamente pericolosi; crea problemi perché molto spesso i comandanti messi a capo di queste brigate, di queste divisioni, non si rivelano all’altezza della situazione. Questa situazione di difficoltà si riscontra nel fallimento dei primi tentativi di creare grandi divisioni armate. In Versilia nell’agosto del 1944 il tentativo di dare vita ad una grande divisione garibaldina dura solo una settimana e le 8 bande che poi avevano dato vita alla revisione si sciolgono dopo l’episodio che dà vita alla strage di Sant’Anna di Stazzema. E anche nelle zone qui della Lunigiana il primo tentativo di coordinare bel 11 formazioni che operarono tra Sarzana, Massa e Carrara dura pochissimi giorni e viene spazzato via dal grande rastrellamento tedesco del 24/25 e 26 agosto del 1944 nella valle del Lucido, quello nell’ambito del quale poi avviene il grande eccidio di Vinca. Anche nella zona in questione, nell’area fra le valli del Taro, del Vara e del Magra, questo processo di unificazione è un processo problematico. E’ un processo che – dice Capogreco – “è finalizzato alla creazione del Comando unico partigiano facente riferimento al CLN spezzino e alla costituenda IV Zona operativa ligure”. Ma è un processo che trova opposizioni. C’è innanzitutto una concorrenza interna tra azionisti e comunisti, cioè tra Brigate di Giustizia e Libertà e Brigate garibaldine. E vi è una lotta per la scelta di chi dovrà poi dirigere questo comando unico… E vi è una situazione che è complicata dal fatto che “Facio” (che a quel tempo era diventato il comandante del distaccamento “Picelli”, che era comunista, ed accettava senza problemi la presenza del commissario politico nella sua formazione, un commissario politico che veniva da Parma) era collegato alla struttura militare-politica del Parmense, non si sentiva a suo agio in questo processo di unificazione delle formazioni spezzine e aveva varie volte manifestato dubbi e il proposito di rispostare la sua formazione, nella quale per altro l’elemento locale, lunigiano e ligure, era venuto crescendo, rispetto all’originaria parte emiliana della formazione… Il proposito di riportarla nel Parmense per avvicinarla al comando della XII Brigata Garibaldi, brigata alla quale lui faceva riferimento e della quale si sentiva parte. Questo atteggiamento di Dante Castellucci creò molti contrasti con altri comandanti partigiani della zona. Senza la “Picelli”, infatti, in Lunigiana la componente comunista del fronte resistenziale si sarebbe inesorabilmente indebolita, e la competizione con gli autonomi e gli azionisti per i posti di comando nel futuro Comando unificato militare avrebbe visto probabilmente perdente la componente comunista. E, perciò, cominciò un’opera di pressione su Facio. Facio cominciò ad essere descritto come uno spirito “troppo libero”, intollerante della disciplina. Certo un partigiano ardimentoso, ma non disciplinato, non obbediente alle direttive del partito. Anche questa, guardate, io vorrei appunto contestualizzare, non è una situazione che si crea esclusivamente qui in questa zona. Le accuse che vengono fatte a Facio sono le stesse accuse che i comunisti bolognesi rivolgono al comandante partigiano della zona di Monte Sole, il mitico “Lupo” (Otello Musolesi) che comandava una brigata chiamata “Stella Rossa” (quella contro la quale poi i tedeschi alla fine di settembre del 1944 porteranno il grande attacco che si risolverà nel massacro di Monte Sole (conosciuto soprattutto come il massacro di Marzabotto, ma in realtà è l’altipiano di Monte Sole che viene investito). In qualche misura Lupo somiglia alla figura di Facio, con una sola differenza, che Lupo era della zona, mentre Facio era calabrese. Ma anche Lupo era comunista, ma di un comunismo generico, umanitario. Era insofferente, più di Facio per la verità, del tentativo del partito comunista di mettere il controllo alla sua brigata, che era forte di ben 850 elementi nella fine del settembre ’44, quando verrà poi spazzata via dal rastrellamento tedesco. E’ anche lui poco propenso a inserirsi nella struttura unificata delle bande del bolognese. Era stata creata lì una struttura che si chiamava CUMER (il Comando Unificato Militare dell’Emilia Romagna). Addirittura a Lupo era stato offerto il comando del CUMER, ma lui si rifiuta di accettare e si rifiuta di considerare la formazione Stella Rossa facente parte del CUMER, e non prende ordini dal CUMER. E anche del Lupo si comincia a dire che è indisciplinato, che è troppo libero, che certo è un comandante amato dai suoi uomini e dalla gente, ma che non capisce le necessità strategiche della zona. Tant’è che una leggenda, alimentata dalla sua stessa famiglia, da sorella del Lupo dopo la guerra, ne fa risalire la morte non allo scontro con le SS di Reder nel primo giorno del massacro di Monte Sole (come effettivamente fu), ma ad un’azione di alcuni suoi compagni, legati alla struttura comunista bolognese, che avrebbero fatto fuori Lupo proprio perché si opponeva all’unificazione di tutte le bande della zona emiliana. La sorella nel 1964, mi pare, chiese la riesumazione del cadavere del fratello, vi fu un’inchiesta che poi si chiuse poi con un nulla di fatto, perché effettivamente Lupo fu ucciso dai tedeschi diversamente da Facio, però questo è significativo del fatto che anche in quella zona vi erano tensioni fra comandanti partigiani della prima ora, come era Lupo, e la struttura del partito comunista. E’ quindi in questo contesto che scatta il piano di sbarazzarsi del comandante partigiano carismatico, ma riluttante a rientrare nei progetti di una parte della struttura spezzina, una parte, badate bene, io non credo si possa dire i comunisti spezzini genericamente. E, infatti, Capogreco non lo dice. Facio viene attirato, con un tranello, presso il comando di una formazione partigiana vicina, quella di Tulio, viene arrestato, sottoposto ad un ridicolo processo (ridicolo sia per le accuse che gli vengono rivolte, sia per le modalità che non tengono conto minimamente di quel minimo di formalizzazione della giustizia partigiana) e fucilato nel giro di poche ore. Tutti i protagonisti del cosiddetto tribunale di guerra facevano riferimento al partito comunista. Uno di essi, Antonio Cabrelli, si era introdotto fin da maggio nella formazione “Picelli” di Facio. Ed ebbe un ruolo determinante nella vicenda, perché, fin dall’inizio, cominciò a fare un’opera di disgregazione all’interno della formazione di Facio, cercando di convincere molti uomini di Facio ad abbandonarlo, ad aderire ad altre formazioni, o comunque a ostacolare il progetto del loro comandante di portare la sua formazione nel Parmense. Ora Antonio Cabrelli è indubbiamente una figura ambigua. Di lui erano stati avanzati sospetti da parte di compagni di partito di essere un agente dell’Ovra, la polizia segreta fascista. Tant’è che Cabrelli quando era stato mandato al confino, era stato isolato dall’organizzazione del partito. Su questo specifico aspetto, se cioè Cabrelli fosse un’agente dell’Ovra o meno, la ricerca di Capogreco, così come le affermazioni di Laura Seghettini, nel suo libro, che è convinta che il Cabrelli fosse un’agente dell’Ovra, in realtà non portano elementi di prova decisivi. Negli archivi dell’Ovra il nome di Cabrelli non compare come un agente, vi sono documenti ritrovati nell’archivio di stato nei quali si rileva soltanto che quando Cabrelli rientra in Italia dalla Francia fa una specie di dichiarazione di fedeltà al duce e denuncia nientemeno che struttura estera del partito comunista. Cioè denuncia una cosa che tutti sapevano cos’era. Dire la struttura estera del partito comunista era composta da Longo e altri era dire una cosa che, naturalmente, le autorità fasciste conoscevano benissimo. Tant’è che queste denunce non vengono considerate dalle stesse autorità fasciste significative di un ravvedimento radicale di Cabrelli. Cabrelli viene mandato al confino e si fa tutti i suoi anni in confino senza neanche un permesso (in quegli anni vi sono varie lettere in cui egli chiede un permesso). Quindi io non credo che Cabrelli sia un agente provocatore dell’Ovra... Ma, anche ammesso che effettivamente Cabrelli fosse un agente provocatore, ciò nulla toglierebbe alla responsabilità politica di quella parte della struttura militare del partito comunista che provvide al processo e all’esecuzione di “Facio”. Del tribunale di guerra che in poche ore lo processò e lo fece fucilare facevano infatti parte sei comunisti, tutti con ruoli di rilievo nella Resistenza armata. Due di loro, lo stesso Cabrelli e Luciano Scotti, saranno di lì a poco nominati rispettivamente commissario politico e capo di stato maggiore del neocostituito Comando unico spezzino che, peraltro, fece, appunto, una pessima prova di sé, perché fu spazzato via dal rastrellamento tedesco. Commenta Capogreco: “l’adesione coatta del ‘Picelli’ [che avvenne dopo l’uccisione di Facio] alle forze garibaldine spezzine permetterà di riequilibrare i rapporti di forza con la Colonna Giustizia e Libertà, e consentirà ai comunisti di ottenere i posti di maggiore responsabilità nel Comando della Prima Divisione”. E credo che questo sia obiettivamente una spiegazione plausibile delle motivazioni per cui Facio è stato eliminato. Peraltro sarebbe erroneo, a mio avviso, (infatti è un errore che non fa Capogreco) parlare di una congiura del Partito comunista spezzino contro Facio: il responsabile provinciale spezzino, Antonio Borgatti, criticherà duramente il comportamento dei propri compagni di partito, e così farà Paolino Ranieri – altra figura mitica di antifascista e partigiano – in un rapporto sul processo. Verrà mandato come ispettore dal partito e stilerà un rapporto molto critico sul processo che venne fatto. E quindi, voglio dire, il fatto che il responsabile politico spezzino Borgatti si sia dissociato da quello che altri comunisti, che stavano in montagna, avevano fatto dimostra che non è una congiura del partito comunista. E’ di una parte della struttura militare del partito comunista, probabilmente, anche qui, con rapporti di relativa autonomia rispetto alla parte politica, che decide autonomamente di eliminare Facio. E lo dimostra un'altra evidenza: dopo la liberazione, nessuno di coloro che aveva processato ed ucciso Facio farà strada nel partito e nella vita politica, e quindi questo è già un elemento di notevole interesse. Ora, vedete, e poi mi avvio a concludere - vorrei dedicare alcuni cinque minuti di quello che avviene dopo la liberazione - la conflittualità all’interno dei partigiani è certo un tema scottante, rispetto alla versione della Resistenza come un tutto unitario, che si è voluto dare, dopo la guerra, anche se la storiografia ha cominciato già da tempo ad occuparsene. Per la verità, già un partigiano, che poi diventerà il principale “cantore” della Resistenza Battaglia, in un libro che scrisse subito dopo la liberazione, sulla sua esperienza di partigiano fatta in Garfagnana, Un uomo, un partigiano che è del ’46, parlerà dell’uccisione di un capo partigiano ucciso dai suoi stessi uomini perché dimostrandosi troppo violento. È una vicenda che Contini riprende in un suo saggio. Ma io vorrei ricordare tre altri episodi che, recentemente, gli storici, tutti gli storici di sinistra che lavorano nell’ambito di istituti della Resistenza hanno ricordato: il primo è un saggio di Santo Peli, che ha scritto un bel libro, il libro migliore uscito negli ultimi anni di sintesi storica della Resistenza, pubblicato da Einaudi. Peli in un saggio intitolato Il primo anno della Resistenza. Brescia 1943-1944, pubblicato nel 1994 sui “Quaderni della Fondazione Micheletti” (un’istituzione di Brescia che ha avuto un merito importantissimo nel portare avanti ricerche storiche soprattutto sul periodo fascista-repubblicano), ci parla di una vicenda abbastanza simile quella di Facio, la vicenda dell’uccisione del capo partigiano russo Nicola Pankov, che si era rifiutato di unirsi con i suoi uomini (erano poco più che un drappello, una decina di persone) ad una formazione garibaldina, e viene quindi fatto fuori. Un altro storico Mimmo Franzinelli molto noto perché ha pubblicato poi vari libri tra cui uno importantissimo sull’Ovra, sempre in un “Quaderno” della Fondazione Micheletti, del 1995, parla di una vicenda (Un dramma partigiano. Il “caso Menici”) che questa volta coinvolge i verdi, cioè le formazioni autonome: un colonnello partigiano della Valcamonica, Menici, il quale addirittura fu addirittura consegnato dalle Fiamme Verdi ai tedeschi, e da questi giustiziato, perché considerato un pericolo (perché troppo a sinistra) per l’egemonia cattolica sul movimento partigiano della zona. E di recente Massimo Storchi, che è il direttore dell’Istituto per la storia della Resistenza di Reggio Emilia, ha scritto un libro (Sangue al bosco del Lupo. Partigiani che uccidono partigiani. La storia di “Azor”) sull’uccisione di Mario Simonazzi, il partigiano cattolico “Azor”, vicecomandante della 76° Brigata Sap, scomparso sulle colline dell’appennino emiliano nel marzo del ‘45, e ucciso probabilmente (la vicenda è ancora di ambigua interpretazione) da elementi garibaldini in un regolamento di conti appunto nel marzo del 1945. Ora, è questo un filone di analisi serio perché a 60 anni di distanza dalla Resistenza noi dobbiamo essere in grado di illuminare luci e ombre. Le luci indubbiamente prevalgono nettamente sulle ombre, ma le ombre ci sono e se non vogliamo lasciare che queste ombre diventino spunto per i detrattori della Resistenza, per una liquidazione sommaria dell’intera esperienza resistenziale bisogna che gli storici facciano il proprio dovere. A questo filone di analisi si unisce il libro di Spartaco Capogreco, al quale bisogna riconoscere onestà intellettuale e competenza storiografica. Ecco, due parole solo, su quello che è successo dopo. Dopo la fine della guerra, Laura Seghettini cercherà di ottenere una riabilitazione di Facio. Parlerà addirittura con Amendola, gli esporrà i suoi dubbi sull’appartenenza, appunto, all’Ovra di “Salvatore” (questo il nome di battaglia di Cabrelli) ma non ci riuscirà. Non ci riuscirà perché, probabilmente, nel dopoguerra, in una situazione di guerra fredda, qualsiasi elemento che poteva far pensare ad un attacco alla Resistenza, veniva messo in disparte. Non è il caso che questi studi di storia, di cui vi ho parlato, comincino dagli anni ’90. Si preferì percorrere una specie di rivalutazione ipocrita la strada della concessione – e qui sarebbe interessante capire chi propugnò la medaglia d’argento; chi ci fu dietro… Perché nel 1963 si decise di dare la medaglia d’argento a Facio, un fatto che giustamente Capogreco definisce un “capolavoro di ipocrisia”, perché dice la motivazione: “Scoperto dal nemico, si difendeva strenuamente; sopraffatto e avendo rifiutato di arrendersi, veniva ucciso sul posto. Esempio fulgido del più puro eroismo. Zona di Pontremoli, 22 luglio 1944”. Falsità pura: Facio non fu scoperto e ucciso dal nemico, ma fu ucciso da quelli che considerava più che amici, compagni. Non si oppose alla sua uccisione, perché il fatto che dei compagni di partito lo considerassero un traditore e lo condannassero a morte gli stroncò qualsiasi volontà di reazione. Come dimostra il libro Il piombo e l’argento, gli fu proposto di fuggire durante le ore precedenti l’esecuzione. Ma si rifiutò assolutamente. E quindi, quella conferitagli è indubbiamente una medaglia ipocrita. E allora, per concludere, Mario Isnenghi, storico dell’antifascismo e della Resistenza, a conclusione della Prefazione al citato saggio di Franzinelli sul caso del partigiano Menici consegnato ai tedeschi dai suoi stessi compagni, scriveva: Davanti al pericolo di “strumentalizzazioni interessate” di ricerche ed opere come queste, “il ‘fronte’ politico e storiografico della Resistenza si [può] difendere e tenere solo così: contrastando l’oblio, in tutte le sue forme, anche quelle apparentemente pietose e che ci vorrebbero complici”. E credo che il grande merito del libro di Carlo Spartaco Capogreco sia appunto rifiutare l’oblio che si voleva mettere su una vicenda enigmatica, problematica, ma della quale oggi, credo, conosciamo tutti gli snodi, e di aver accettato la ricostruzione della verità. Di una verità difficile, di una verità che naturalmente è frutto di una interpretazione (come sempre è frutto di una interpretazione il lavoro dello storico), ma di una verità ricercata con grande onestà intellettuale, con grande finezza interpretativa, e con grande, lasciatemelo dire, amore per Facio e per la Resistenza.

Paolo Pezzino (Ordinario di Storia contemporanea, Università di Pisa)

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